SOLO_LOGO_TRASPARENTE_BIANCO

Lettera aperta all’UEFA – versione italiana

All’origine delle cose: il caso Neymar/Mbappe’, i problemi del calcio, i tifosi e il fairplay sportivo.

Lettera aperta ai dirigenti dell’UEFA e alle Federazioni Nazionali del calcio europeo

 Le prestazioni di Neymar da Silva Santos junior e Kylian Sanmi Mbappè sono state acquisite dal Paris Saint Germain(PSG) per una cifra che si avvicina ai 450 milioni di euro(con le varie commissioni ai procuratori l’investimento, esclusi gli ingaggi dei giocatori stessi, supera il mezzo miliardo di euro). In questa stessa sessione di mercato il Barcellona aggiunge al suo organico Ousmane Demblè per 145 milioni di euro(commissione procuratore e ingaggio del giocatore esclusi). Nelle due ultime due sessioni di mercato il Manchester City, che per bocca del suo allenatore Joseph Guardiola ha criticato la strategia economica del PSG, è arrivato a spendere un miliardo di euro.  Tutto questo mi impone delle riflessioni, partendo da due frasi di sir Matt Busby, mio padrino e mitico allenatore del Manchester United, che  sono rimaste valide nel tempo: “Noi dobbiamo il massimo rispetto ai tifosi, perché non dobbiamo dimenticare che sono loro che ci pagano lo stipendio”. “Il club è stato quotato in borsa. Abbiamo di certo venduto l’anima, ma non sappiamo a chi”.

All’inizio del gioco fu la casualità a decidere che le squadre fossero composte da undici giocatori: i dormitori dei college inglesi, chissà perché, erano composti da undici letti. All’inizio del gioco fu la casualità che il gioco stesso fosse stato inventato nell’Inghilterra vittoriana e puritana: questo, a causa di una regale pubblica decenza, ne determino lo svolgimento in luoghi chiusi e circoscritti. All’inizio del gioco fu la casualità dell’espansione coloniale europea, unita all’evolversi continuo delle scoperte tecnologiche, a rendere possibile il pallone così come oggi lo conosciamo: la difficoltà di reperire sostanze espansive, che rendessero sicure la sfericità e la resistenza del pallone, furono vinte grazie all’avvento del caucciù e all’invenzione della camera d’aria. All’inizio del gioco fu la casualità a decidere che nessun giocatore poteva correre con il pallone tra le mani(tranne che il portiere) o poteva caricare l’avversario: il segretario fondatore della Football Association, Mr Morley, ebbe la meglio su Mr Campbell, che voleva far diventare il calcio una sorta di sport succursale del rugby. All’inizio del gioco fu la casualità a portare il calcio tra coloro che lo avrebbero dotato di fantasia e allegria: la necessità di costruire una rete ferroviaria sulle sponde del Rio della Plata fu affidata ad una compagnia inglese; e da lì  a poco, grazie anche all’esportazione di frigoriferi inglesi a Montevideo, la rivalità infinita tra Uruguay e Argentina( a tutt’oggi non hanno nemmeno raggiunto un accordo se il grande genio del tango Carlos Gardel fosse uruguagio o argentino. E da quelle parti il tango è davvero una cosa molto seria) si trasferì anche su un rettangolo di un campo di calcio.

Potrei continuare all’infinito sull’importanza che hanno avuto le casualità, vere o presunte, sul diffondersi del gioco del calcio in tutti gli angoli del globo, ma non è un semplice elenco da stilare che mi ha portato a scrivere questa lettera aperta ai dirigenti UEFA. Anche perché l’elenco delle casualità potrebbero indiziarmi come una persona vogliosa di intraprendere un’operazione nostalgia. Non ho deciso di scrivere questa lettera aperta  per ricordare i bei tempi andati, semmai bei tempi sono stati. In questa lettera aperta vorrei mettere  in evidenza una cosa che i casi Neymar e Mbappè mi è apparsa in tutta la sua chiarezza: ancora una volta, da quando in Europa esiste il gioco del calcio, la casualità, che per quanto mi riguarda è sempre una stazione terminale di un processo culturale, ha preso la forma di un pallone tirato a caso e che, quindi, non si sa esattamente dove andrà a finire. Ci si è voluti dimenticare della casualità generata da un processo per sovrapporre qualcosa di estraneo non solo al movimento calcistico europeo, ma ad un comune sentire generale. Ultimo protagonista di questo sovrapporre estraniante, e artatamente forzato, è stato il Fondo Sovrano del Qatar. Questo forziere smisurato in larghezza e profondità, che mi piace pensare pieno di dobloni di piratesca memoria, sta scardinando non solo le regole del buon senso ma anche le regole della necessaria sincronicità(simultaneità di due avvenimenti vincolati dal senso, ma in maniera casuale) che gli accadimenti della vita devono avere.   Se vogliamo capire la gravità dell’operazione Neymar/Mbappè(trascinando come in un terribile effetto domino anche l’operazione Dembelè), bisogna ricordare che lo sport moderno nasce soprattutto in Inghilterra e rapidamente si propaga in tutta Europa. La gente europea, nel corso degli ultimi centocinquant’anni, si affeziona alle gesta sportive grazie agli sforzi di uomini e donne che, per ragioni e strade diverse, diventano miti grazie a delle vittorie che le fanno riscoprire senso di appartenenza ad un luogo e ad una storia. 

“I prezzi dei trasferimenti si sono moltiplicati incredibilmente. Ma è il mercato. Non esistono business senza limiti…” ha dichiarato Aleksander Ceferin, presidente dell’UEFA, in un’intervista rilasciata qualche giorno fa. Quindi tutti abbiamo appreso, e in modo direi inequivocabile, che il presidente del massimo organismo calcistico europeo pare essersi arreso all’ineluttabilità di un certo carattere mercantilistico che ha assunto il movimento sportivo che guida da qualche tempo. Continuiamo a citare il Paris Saint Germain e proviamo per un attimo a fare un po’ di storia. Il PSG nasce negl’anni sessanta da una volontà tutta francese di avere una solida squadra di calcio a Parigi. La capitale di Francia non poteva certo rimanere senza un club calcistico di elite. La squadra che oggi sembra essere una delle tante derive di una smodata ricchezza dovuta allo sfruttamento di gas naturale, nasce per il coinvolgimento e la passione di tante persone. Nel 1970, a seguito di una sottoscrizione promossa da autorevoli personalità parigine, 17.400 persone si impegnano a diventare futuri soci di una società calcistica che guarda come modello l’azionariato popolare del Real Madrid FC. Si impegnano nonostante manchi ancora tutto: società, squadra, stadio, un campionato a cui partecipare. Ma, appunto, la passione della gente quella proprio non manca. Non la voglio fare tanto lunga, e quindi ricordo solo che da quella passione nacque una delle società che ha fatto la storia della Ligue 1 e dello sport di Parigi. Poche squadre come il Paris Saint Germain sono frutto dei sogni e dei desideri di una moltitudine di persone, un sogno che fu condiviso in ogni strato sociale, accomunando operai e bottegai, professionisti e nobili decaduti, filosofi e diseredati delle banlieu. Quelle 17.400 persone e la filosofia che li aveva animati, non possono, nel misterioso percorso del caso, aver partorito un acquisto  da 400 milioni di euro per due soli giocatori. Non è difficile comprendere la rabbia del Barcellona, visto che  l’iperbolica clausola rescissoria di Neymar era stata fissata per mettere un limite al possibile, come una dichiarazione che pone un tetto etico a tutte le possibili azioni umane. E’ la stessa storia culturale dell’occidente(passando dalla filosofia greca, al cristianesimo ad Emanuel Kant) ad aver fissato questo limite entro il quale può svolgersi ogni azione umana, stabilendo un principio che è fissato persino dalla Magna Charta Libertarum del 1215,  fondamentale documento che sancì per la prima volta nella storia delle vicende degli uomini i diritti reciproci che dovevano intercorrere tra chi era membro attivo dell’esercizio del potere (il re) e chi era membro passivo del potere stesso (il popolo). Non fu soltanto un retorico gesto di compassione per i diritti del popolo, ma un riconoscimento di un fatto fondamentale della vita: tutto è transitorio. Le nostre vite sono transitorie, le nostre azioni sono transitorie, il nostro tempo è transitorio, il nostro potere è transitorio; le istituzioni rimangono per sempre. Quindi vanno preservate dalle azioni transitorie degli uomini.   Ecco allora, a mio parere, il nocciolo della questione: di chi è il gioco del calcio? Chi ha avuto occasione di seguire la mia azione nel mondo dello sport(sempre in nome e per conto dei diritti dei tifosi), sa che non è la prima volta che mi pongo pubblicamente questa domanda; questo perché ormai non si capisce più dove finiscono gli interessi geopolitici ed economici e dove cominciano gli interessi del gioco. Certo, e parlo da tifoso, mi aspetto sempre che siano gli organismi eletti a regolare gli interessi del gioco(UEFA, FIFA, federazioni nazionali, ecc…). Un inglese, quale io sono, è dai tempi della della Magna Charta che da per scontato che una classe politica(e i dirigenti sportivi sono classe politica) debba difendere gli interessi generali delle istituzioni che sono chiamate a gestire. 

Da quando nel 1858 furono fissate le Sheffield Rules(le regole di Sheffield), le istruzioni basilari che rendono le partite di calcio uguali in tutto il mondo, niente aveva mai prevaricato un percorso ordinato e coerente di quel che si dice sia il gioco più bello del mondo. Anzi, tutto era sempre apparso eccessivamente conservatore nella gestione delle varie competizioni, fossero quelle dei club o delle nazionali. 

Un giorno cominciarono ad apparire dei curiosi geroglifici e disegni sulle maglie ufficiali dei club: erano i loghi dei cosiddetti sponsor tecnici. Apparve a tutti subito un buon affare quello degli sponsor tecnici, aumentavano gli introiti dei club essendo invasivi in modo accettabile nelle maglie ufficiali. Un piccolo passo porta sempre ad un altro passo, ed ecco che dopo poco tempo marchi di sponsor esterni al mondo dello sport campeggiare in modo orizzontale lungo tutta la parte anteriore delle maglie dei club. Questo mercato pubblicitario ebbe il suo sviluppo sul finire degli anni 70 e il suo definitivo affermarsi negli anni 80. I tifosi, quelli che venivano da cento anni e più di maglie che erano sacre come una bandiera e quindi intoccabili(potete immaginare il logo di una nota marca di birra al centro della “union jack”?), all’inizio cercarono di protestare ma, come sempre, vennero zittiti con analisi di tipo terroristico. I club, secondo alcuni autorevoli(sic) analisti, erano pericolosamente seduti su bilanci pieni di debiti e rischiavano la bancarotta, ma grazie a questi nuovi sponsor il pericolo era scongiurato. Il sacrificio di vedere la maglia occupata da una scritta pubblicitaria in fondo era accettabile, pur di continuare a vedere i nostri undici eroi scorazzare sui prati verdi dei nostri stadi. Sarebbe istruttivo curiosare nel bilancio del 1979 del Liverpool, per verificare quale urgenza ebbe il club di Anfield Road di apporsi sulle maglie il nome di una nota fabbrica di materiale elettronico. Molti sarebbero sorpresi nello scoprire come il Liverpool Football Club non sedesse su una montagna di debiti. Ma i tifosi è facile prenderli in giro nelle loro paure, siamo tutti degli innamorati senza riserve. Nella maggior parte dei casi, noi tifosi, siamo trattati come dei clienti affetti da dipendenza. Come è stato convenientemente facile, per i padroni delle società di calcio,  confondere l’amore per una semplice droga.  

Nel 1983 avvenne anche la prima quotazione di una società di calcio in borsa, quella del Tottenham, e poi ci furono le sempre più fruttuose rendite derivanti dalla vendita dei diritti televisivi. Era chiaro che il mondo del calcio si stava sempre più assumendo la forma di una grande holding finanziaria. Il costo dei biglietti per vedere una partita allo stadio, nonostante la concorrenza dell’evento televisivo, continuava a lievitare verso l’alto.  Tutto ciò che si faceva, e si fa, doveva generare utile. I padroni delle società si giustificavano con i costi di gestione sempre più pesanti, aggravati, a partire dal 1995, dalle conseguenze della legge Bosman. Tutti questi cambiamenti epocali non fanno smettere i soliti autorevoli commentatori di continuare a dire che il calcio continua ad essere uno sport eccessivamente conservatore. E’ un classico caso di scuola di psicologia clinica: bisogna sempre colpevolizzare la vittima(in questo caso il calcio), per continuare a fare passi in avanti. Passi in avanti che, come abbiamo visto, sono cominciati sul finire degli anni settanta. Tutto è servito per scompaginare il campo e far dimenticare la cosa più importante che si trova alle origini del calcio: il fairplay.

 Nella struttura etica degli studenti dei college inglesi dell’epoca vittoriana, era assolutamente impensabile non operare all’interno di un gioco leale. Loro, gli studenti, erano la futura classe dirigente dell’impero, e all’idea dell’impero, e a quanti si erano sacrificati per esso, era proprio la lealtà che dovevano come principio morale erto a bussola di tutte le attività. Si poteva e si doveva tendere alla vittoria(l’ambizione era assolutamente una qualità morale!), ma questa se arrivava, doveva arrivare in un assoluto rispetto delle regole  che garantiva le stesse opportunità a tutti i contendenti. Ciò era importante, appunto perché come futura classe dirigente sentivano l’obbligo di dover dare l’esempio. Non importa la condizione sociale a cui si appartiene perché, come ho ricordato nella citazione della Magna Charta, tutti dobbiamo avere dei doveri e dei diritti di fronte alla legge. E la legge, quindi le regole che la compongono, devono essere frutto di un percorso condiviso. La Magna Charta ci ricorda che nessuno, fosse per diritto derivante dal divino o per diritto derivante dal denaro, può prevaricare sul percorso condiviso. Solo questo percorso, come si è detto all’inizio di questa lettera, può generare cose giuste persino dal caso. E questo lo voglio ribadire con forza, con tutta la forza che mi è rimasta. 

Ma è proprio in Inghilterra, nel 2005, che per la prima volta i tifosi hanno la netta sensazione di aver perso contatto con la propria squadra e la sua storia. Sto parlando, e con molta sofferenza, dell’acquisizione, attraverso un’azione di leveraged buyout(cioè l’acquisto di una società scaricando il debito dell’acquisto sul bilancio della società stessa), del Manchester United(squadra di cui sono tifoso da quando sono nato) da parte della famiglia Glaser. Le casse del Manchester United, fino a quel momento più che floride, vengono svuotate e appesantite di un debito monstre da questa famiglia influente dello stato di New York, proprietaria anche di una squadra di baseball. Da quel momento i Glazer importano in Europa la logica americana di una società sportiva vista più come “franchigia” che come “club” di logica europea. La franchigia ha come scopo principale, essendo una compagnia privata totalmente svincolata da un territorio e dalla sua storia, non di assicurarsi risultati sportivi ma lucrosi profitti. Tutto, nel mondo ideale della franchigia, diventa merce da vendere, persino le amichevoli precampionato. Ecco quindi  la mia squadra del cuore nei mesi estivi di preparazione andare in giro per il mondo,in cambio di costosi gettoni di presenza. La squadra che era diventata la seconda pelle di mio zio Matt, ormai è diventata più un marchio pubblicitario(si vendono persino oggetti di biancheria intima con il marchio dei “red devils”), che il simbolo sportivo di buona parte della comunità mancuniana. E noi tifosi abbiamo dovuto subire tutto questo, senza avere nessuna possibilità di reagire. La filosofia della franchigia ha portato i prezzi dei biglietti dell’Old Trafford(la casa del Manchester United) ad oltre 100 sterline, svuotando lo stadio dalla classe operaia e proletaria di Manchester. Non è questo il futuro che Matt Busby aveva prefigurato per il “Teatro dei Sogni”(così viene chiamato lo stadio Old Trafford). Il Teatro dei Sogni di Matt Busby non doveva essere una macchina mangiasoldi, ma un posto dove la gente potesse essere, almeno per un attimo, felice. Anche con poco. A questo sogno lui ha dedicato tutta la sua vita e tutto il suo dolore per la perdita nella tragedia di Monaco dei “Busby Babes”. Inorridirebbe, zio Matt, vedendo uno United ormai  diventato un “corporate football” più che un club sportivo. Una corporate football che in dodici anni ha creato un debito di quasi 600 milioni di euro sul bilancio del club e un guadagno, stimato per molto difetto, di oltre cento milioni di euro(dati della borsa di New York) per la famiglia Glazer. I proprietari dello United sono da anni proprietari, come ho detto, anche di una squadra di baseball, lo sport americano per definizione. Nel baseball, come in tutti gli sport professionistici made in USA, sono delle regole ferree, e che non possono in nessun modo essere trasgredite o derogate, che consentono la reale regolarità di tutto un sistema sportivo. Nessun club USA, per esempio, può contare sull’andamento verso l’alto o verso il basso delle quotazioni dei giocatori, dato che tutti i trasferimenti avvengono praticamente nell’ equivalente “parametro zero”del calcio europeo. Inoltre nessuna squadra può dare in prestito un giocatore ad un’altra squadra, con tutte le conseguenze positive che si possono immaginare. In buoba sostanza: in nessun modo un giocatore può diventare un asset di una squadra USA in sede di mercato giocatori. Questo perché, anche nel Paese del libero mercato più spinto,  sono le regole, rispetto al’interessi particolari, a dover primeggiare. Questo fa fa sì che nessuna squadra diventi mai veramente troppo più forte delle altre e nessuna squadra diventi mai veramente più debole delle altre. Concetto fondamentale del fairplay sportivo. Fa pensare che proprio una proprietà americana, i Glazer, abituata ad obbedire alle regole di gestione del campionato di baseball, abbia usato e stia usando metodi da capitalismo selvaggio, in spregio a qualsiasi concetto etico e del fairplay sportivo. Ma, come recita un vecchio proverbio ceco, “se pensi di aver toccato il fondo, tendi l’orecchio: sentirai qualcuno bussare sotto di te”.

Continua Aleksander Ceferin sull’intervista concessa: “noi siamo contenti del prodotto calcio, che è fantastico, aumenta i ricavi e distribuisce utili. Il vero problema sono i soldi che escono dal sistema…”.  Per Ceferin uno dei problemi principali sono le commissioni troppo alte che i procuratori sportivi percepirebbero nelle operazioni di compra-vendita. Ma sono veramente questi i soldi che escono dal sistema?

“I fondi sovrani nascono come speciali veicoli di investimenti pubblici, per investire in strumenti finanziari e altre attività i surplus fiscali o le riserve di valuta estera”. Questa citazione di scuola, fa capire chiaramente che un fondo sovrano investe sempre in un territorio/nazione che non è il suo, dichiarando per sua evidente costituzione che non vuole avere legami verso il territorio/nazione verso il quale sta investendo. Tutti i denari che il fondo sovrano guadagna da questi investimenti saranno utilizzati nel solo esclusivo interesse dei cittadini dello stato a cui il fondo sovrano appartiene. Ma se ciò è assolutamente corretto, come è logico che lo sia, allora una contraddizione evidente balza assolutamente davanti a noi: un fondo sovrano che controlla una squadra di calcio non solo tratta il tifoso come un cliente, ma finisce per utilizzare i notevoli proventi generati dal tifoso/cliente(dotato di amore incondizionato e quindi non necessitato di essere attenzionato da un ingente investimento in marketing) in una realtà da lui assolutamente lontana. IL tifoso/cliente spendendo i suoi soldi nel biglietto dello stadio, nell’abbonamento tv, nel merchandising decide di mettere in mano i suoi soldi, “donarli” per l’amore incondizionato verso la sua squadra, a chi ha il potere di utilizzarli: la proprietà del club. Il tifoso/cliente, a questo punto, potrebbe dormire sonni tranquilli, se la proprietà del club fosse in mano a gente dotata del suo stesso amore incondizionato. Ma, come ho già spiegato, un fondo sovrano investe sempre in qualcosa di diverso e lontano rispetto alla gente a cui deve amore incondizionato. Qui, secondo me, risiede il problema che l’acquisto di Neymar e Mbappè(e dello United, e del City, e di Dembelè, ecc…) ha fatto venire prepotentemente alla luce. Questi due acquisti non sono stati fatti nell’interesse del club parigino, ma solo nell’interesse del fondo sovrano del Qatar. E qui, egregi dirigenti del calcio europeo, non potete, proprio non potete, volgere lo sguardo da un’altra parte(specialmente dopo la scandalosa acquisizione dello United da parte dei Glazer). Voi dovete pretendere, in quanto custodi e regolatori del calcio europeo, che il fairplay, cioè il rispetto delle regole e della lealtà in nome e per conto dei più deboli e per far sì che la vittoria dei più forti sia legittimata da giustizia, siano rispettati. Ci sono dei tifosi che sono stati, e continuano ad essere, palesemente raggirati da un fondo sovrano che non può, e non deve per sua costituzione stessa, perseguire gli interessi del loro amore. I dirigenti del calcio europeo devono intervenire non solo per tutelare il patrimonio dei tifosi, ma anche per difendere i diritti di tutti gli altri club della Ligue 1 che non hanno la forza devastante di nessun fondo sovrano alle loro spalle. Il fairplay, che è la natura stessa del gioco del calcio e che viene ricordato in ogni manifestazione presieduta dalla FIFA, impone che tutti debbano rispettare le regole senza abusare di un potere abnorme per aggirarle. Questo, come è del tutto evidente, nella Ligue 1 non sta avvenendo.  E non sta avvenendo nemmeno in Italia con l’ingresso dei cinesi nelle proprietà di Inter e Milan, due tra i club non solo più importanti d’Italia, ma del mondo. Per la conformazione stessa della natura del potere in Cina, non esistono imprese private, ma solo privati che hanno avuto in concessione imprese che devono essere regolate dal governo e che al governo devono rispondere. Quindi ci troviamo di fronte ad un sistema cinese di imprese che, in realtà, vanno a comporre un grosso fondo sovrano mascherato e controllato rigidamente dal governo cinese(sia chiaro che la mia è solo una valutazione oggettiva di un dato di fatto, non una critica in postivo o in negativo di un sistema politico/imprenditoriale. Cosa che, eventualmente, spetterebbe a ben più autorevoli personalità della mia).Ogni volta che parlo di fairplay alla fine, scettici e non, mi chiedono se abbia in tasca una soluzione per questo mondo impazzito. Ogni volta rispondo con una storia così bella e significativa da sembrare leggenda. Ma in realtà questa storia è accaduta e sta accadendo in Svezia. Borlange è una fredda città di quarantamila abitanti della regione  dello Svealand, dove si trova una fortissima emigrazione di origine curda. Gli emigranti curdi, animati da una passione per il calcio e da un fervente nazionalismo, fondano nel 2004 una squadra di calcio, il Dalkurd FF, con la maglia dai colori della bandiera curda e la iscrivono alla più bassa divisione della federazione di calcio svedese. Tutta la comunità curda si tassa per finanziare il Dalkurd FF, che ha un organico composto solo da giovani immigrati. Da quel momento il Dalkurd FF vince ad ogni campionato in cui partecipa, fino a giungere, nella sorpresa generale, alla Superettan, la seconda divisione svedese. Allora Sarkat  e Kawa Junad, due facoltosi fratelli imprenditori curdi attivi nel settore delle telecomunicazioni, hanno deciso di investire nel Dalkurd FF. Qualcuno, a questo punto, potrebbe pensare ad una storia che si ripete: la passione di una moltitudine di tifosi finanzia e fa crescere un club e poi arrivano i milionari che rilevano tutto e si godono le fatiche di chi ha creato un sogno. Ma questo la legge svedese(sull’esempio di quella tedesca) non lo permette(ricordate le garanzie della Magna Charta?), visto che impone il controllo di almeno il 51% di un club di calcio ad un azionariato popolare diffuso. Questo perché, e qui arrivo alla risposta alla domanda che retoricamente ho posto qualche riga fa, la politica svedese si è resa perfettamente conto che una squadra di calcio non può che essere di proprietà dei tifosi, non può che essere patrimonio esclusivo del territorio dove le sue gesta si sono compiute. Questo in nome della tradizione antropologico/culturale dell’Europa, di cui è figlio il gioco del calcio. Nessuno, nemmeno un potentissimo fondo sovrano(specie se è scevro di cultura europea), potrebbe e dovrebbe mettere in discussione questo principio. Ma ciò, purtroppo, sta accadendo sotto i nostri occhi proprio in questi giorni a Parigi. Io esorto con veemenza il presidente dell’UEFA ad intervenire con decisione, in nome del fairplay e della nostra tradizione, che non possono e non devono essere comprati. Il presidente dell’UEFA non cada nella tentazione di cedere al ricatto di creare un campionato europeo autonomo dell’ European Club Association(l’associazione dei 14 club più ricchi d’Europa), che starebbe prendendo in seria considerazione l’idea di sanare l’operazione economica Neymar/Mbappè con il fine di aggirare definitivamente le norme restrittive del fairplay finanziario. 

La bellezza del gioco del calcio risiede soprattutto nella possibilità perenne che i più deboli possano vincere contro i più forti(si chiama “imprevedibilità del risultato”). Lo spirito di questo gioco poteva nascere solo nel continente che ha visto nascere il concetto di “welfare”, un concetto che è costato il sacrificio e a volte persino la vita di una moltitudine di persone. Il calcio è una scuola di vita collettiva che rappresenta non solo la storia europea ma l’anima dell’Europa stessa. Nessun continente come l’Europa sente come esigenza collettiva l’esigenza di un uomo solo. E su queste basi che è nato il calcio. E su questo spirito che il calcio si è propagato ed è stato amato. I fratelli Junad, poiché un sogno non si compra, si sono dovuti “rassegnare” a possedere  “solo” il 49% del Dalkurd FF e hanno promesso che, insieme alle decisioni condivise con i tifosi, il club entro cinque anni arriverà in Champions League. Questa storia è la mia risposta “sul cosa fare?”, e spero che altre autorità politiche, seguendo l’esempio di quelle svedesi e tedesche, abbiano il coraggio e la lungimiranza di ricordarsi chi sono ed il perché sono stati chiamati al grande onore di gestire le nostre cose. Io, per quanto mi riguarda, lotterò fino alla fine dei miei giorni perché i tifosi tornino, con diritto, ad essere protagonisti delle decisioni dei club per cui tengono. Poi, come avrebbe detto Matt Busby, “appena è possibile date la palla a George Best”. E che il sogno continui…

Anthony Weatherill

Carmelo Pennisi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *