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Il mito da normalizzare

(Foto: i giocatori del Genoa costretti dai tifosi a togliersi la maglia. Fonte: tuttoturris.com)

Nella storia si sono svolti conflitti tra culture o civiltà che hanno portato alla distruzione fisica di monumenti, opere d’arte o altri oggetti considerati rappresentativi o simbolici del mito della cultura avversaria. Naturalmente la distruzione dei simboli e la cancellazione dei miti avversari, non è stata mai l’unica ragione che ha scatenato il conflitto. Casomai ci sono state guerre in difesa della propria religione ed in nome del proprio Dio. Infatti mito e religione sono strettamente correlati, poiché spesso i miti sono una parte integrante della fede. In diverse religioni, i miti narrano le storie degli dèi, dei semidei o degli eroi che rappresentano i principi fondamentali del culto e che ne costituiscono il nucleo centrale. Dunque che in un conflitto possa nascere l’obiettivo di distruggere il mito relativo alla cultura avversaria è praticamente certo, altrimenti non si spiegherebbe perché anche nelle recenti immagini delle guerre che ci vengono mostrate, vediamo spesso immagini di distruzioni di monumenti.

Questa premessa è dovuta perché il mito, anche se non porta sempre a guerre – e nel caso che stiamo per trattare, per fortuna aggiungeremmo – può dare il via ad azioni che nella vita comune, gli esseri mortali, a meno che non si sia dei criminali, non farebbero mai. Perché, ad esempio, allo stadio si usa insultare pesantemente un determinato giocatore, offendere pesantemente la memoria della mamma defunta, discriminarlo per la provenienza o per il colore per la pelle, quando magari, nella vita di tutti i giorni non si avrebbe mai un comportamento simile? Cosa spinge nell’animo di alcuni tifosi ad utilizzare la parola “zingaro” per offendere, ad esempio, il campione Zlatan Ibrahimovic?

Forse è perché, come la storia ci ha ampiamente raccontato, In qualcuno può nascere il bisogno di distruggere il mito altrui. Il mito del calciatore è qualcosa che noi appassionati di calcio contribuiamo a costruire, raccontandoli con spot che li ergono a paladini del bene. Ricordiamo ad esempio il celebre spot di un marchio sportivo in cui un all star team, dentro ad un Colosseo in fiamme, sconfigge una squadra di demoni con Eric Cantona che mette la parola fine al match con il suo “Au revoir” prima di tirare il pallone che perfora da parte a parte il demone in porta, facendo terminare la corsa della sfera in fondo alla rete. Se non è mitizzazione questa?!

Ed è allora questo che può spingere l’animo umano a compiere azioni come i pedinamenti sotto casa che hanno costretto ad esempio Zaniolo a lasciare la capitale prima del suo trasferimento in Turchia? Chiaramente non abbiamo la risposta a questo interrogativo, però ne abbiamo parlato con il presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, Umberto Calcagno (clicca qui per vedere il video della puntata), con il quale abbiamo affrontato il tema della violenza subita dai calciatori, e a tal proposito lui ha dichiarato: “Non è possibile che nel calcio non si possa essere liberi di litigare, perché anche nei vostri ambiti lavorativi vi sarà capitato di litigare con chi sta sopra o sotto di voi, però poi non vi siete trovati nessuno sotto casa, oppure ad inseguirvi negli spostamenti tra la vostra abitazione ed altri luoghi.” Le parole di Calcagno richiamano ad un concetto banale della vita di ciascuno di noi, ovvero la libertà di confrontarsi con chiunque, anche in maniera accesa, senza per forza doverne subire delle conseguenze. Ma dunque perché al contrario i calciatori si trovano spesso a vivere situazioni simili?

Giustamente Calcagno afferma che bisogna avere l’obiettivo di normalizzare il mondo del calcio, dove ci sono i miti degli appassionati. Ovvero il vice presidente dell’AIC vuole far capire che ogni forma di violenza è da condannare e che non ci si può assolutamente accontentare di vedere che le contestazioni, gli insulti e le minacce si limitino a quello che sono senza concretizzarsi. #Nonènormale è l’hashtag promosso dall’AIC che vuole in primis sensibilizzare gli stessi calciatori che non è normale, appunto, vivere un ambiente lavorativo in cui si verificano determinate pressioni, anche perché spesso queste sono “l’anticamera della violenza.”

Inoltre il presidente Calcagno afferma con una semplicità disarmante un concetto condivisibile da tutto il mondo, ovvero che non è giusto dare addosso ad un ragazzo di venti, venticinque anni che suo malgrado sta vivendo una stagione storta, oppure sta vivendo problemi personali che purtroppo lo distolgono dal suo impegno principale, o magari sta vivendo una diatriba contrattuale con il club. Il calciatore, come tutti, può vivere anche dissapori all’interno di un ambiente di lavoro, perché aldilà degli alti emolumenti percepiti, il calciatore ha diritto a tutelare i propri interessi. E dunque, secondo Calcagno, “Non è giusto che tutto ciò debba poi sfociare in episodi di violenza. È oggettivamente inaccettabile.”

Probabilmente la violenza nasce dal fatto che si è creando il mito e che, quando si va a genera un contrasto, lo si voglia in qualche modo distruggere. Tuttavia l’interrogativo che nasce è: possibile che nell’animo umano germogli un così alto livello di odio? Trovare la risposta è difficile, di certo per normalizzare il mondo del calcio, forse dovremmo cominciare a considerare i miti come semplici ragazzi che, come tutti, conducono una vita sì privilegiata dal punto di vista economico, ma identica a quella di tutti. E questa è proprio l’idea del presidente Calcagno che afferma: “Ritengo che si debba fare un lavoro molto grande sui nostri giovani, perché l’investimento che noi dobbiamo fare come sistema sportivo è sui tifosi futuri. Portare i calciatori nelle scuole medie ed in quelle superiori soprattutto, cercare di riavvicinare il nostro mondo, alle persone normali, cercando di far vivere con normalità il nostro mondo e cercando di valorizzare i buoni esempi. Il concetto di normalizzazione deve passare anche per chi racconta, perché potrebbe darci una grande mano. Va raccontata la normalità dei grandi campioni. Perché vi posso assicurare che la vita di tutti i giorni, la vita in famiglia dei calciatori è veramente molto più normale di quanto non si immagini anche per chi gioca ad altissimi livelli.”

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