(Foto: i ragazzi dell’oratorio di Ghedi. Fonte: corriere.it)
Oltre alle patologie epatiche, il consumo di alcool fa incrementare le percentuali di contrarre malattie oncologiche. Sul sito dell’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) possiamo leggere: “Secondo uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Lancet Oncology nel 2021, il 4,1 per cento di tutti i tumori diagnosticati nel 2020 sono attribuibili al consumo di alcool, pari a circa 741.300 diagnosi.” Sarebbe dunque buona prassi educare i nostri figli a non bere alcoolici, a non abusarne, facendo capire senza fare terrorismo quali potrebbero essere le conseguenze. Tra queste, come afferma appunto l’AIRC, c’è purtroppo il pericolo oncologico. Per correre ai ripari, la teoria sembrerebbe semplice: fare prevenzione e formazione, informando correttamente soprattutto i più giovani. In questo modo probabilmente quel numero di 741.300 diagnosi di tumore dovuto al consumo di alcool potrebbe vedere un drastico calo. In linea generale l’educazione e le abitudini che si ricevono da piccoli possono avere nel lungo periodo risvolti determinanti per ciascun individuo, con effetti che influiscono nella sfera della salute, del senso civico, della convivenza e del rispetto verso il prossimo.
Questa premessa è dovuta perché forse in molti dovremmo chiedere scusa al calcio in quanto sport. Troppo spesso infatti, ed in maniera anche fin troppo semplicistica, si è data la colpa al calcio per quanto accade sugli spalti, per gli episodi di violenza e di razzismo dilagante, cosa sottolineata anche da Aldo Cazzullo nell’intervista rilasciata ai nostri microfoni (clicca qui per ascoltare o sul player in basso). Troppo spesso sentiamo che certe situazioni si vedono solo nel calcio. È Falso! Dopotutto nel tanto decantato rugby, sport dagli indiscutibili valori, è accaduto che Ivan Nemer, pilone della Benetton Rugby, regalasse una banana marcia al compagno di squadra Cherif Traoré, suo compagno di squadra, italiano di origini guineiane. La differenza apprezzabile tra rugby e calcio è che Nemer è stato squalificato sei mesi, mentre nel calcio un caso analogo probabilmente verrebbe giudicato in maniera decisamente più leggera. Ma quello che si vuole sottolineare è che il calcio è davvero lo specchio della società e che purtroppo ciò che accade di negativo è figlio di quanto genitori, scuola e istituzioni hanno seminato negli anni addietro.
Se Nicola Zalewski, giovane 21 enne di Tivoli, giocatore della AS Roma, di nazionalità polacca, si lascia andare a cantare l’orrendo coro “Vesuvio erutta, Tutta Napoli è distrutta”, non dobbiamo prendercela con il calcio in sé o con il giocatore, a cui certamente può essere indicato un altro genere di comportamento. Ma dobbiamo prendercela con la società che tutti noi stiamo contribuendo a definire. Se poi quello stesso coro viene cantato da una folla di ragazzini festanti dell’oratorio (!) di Ghedi, in provincia di Brescia, allora il fallimento pedagogico umano è sotto la luce del sole. Il calcio ci dà solo una rappresentazione plastica di quello che la nostra società sta producendo. Personalmente mi è capitato di ascoltare lo stesso coro in trasferta durante una partita di Coppa Italia nel settore ospiti, quando ai piedi dello spicchio c’era uno striscione di un club chiaramente partenopeo… quando la discriminazione supera la fratellanza di tifo.
Voglio sottolineare ancora una volta la gravità delle parole “Vesuvio erutta, Tutta Napoli è distrutta”, perché pur non essendo un cittadino napoletano ho visto la mia città andare distrutta in meno di un minuto. È una cosa che non si può augurare a nessuno perché se si è fortunati si sopravvive, altrimenti rischi di perdere la casa, il lavoro, la tua storia, i tuoi riferimenti quotidiani, che ti svuotano l’anima e l’identità. A L’Aquila il terremoto ha prodotto danni per anni, mettendo a repentaglio alcune volte anche la salute mentale di molti aquilani. Possibile che si arrivi ad inneggiare e ad invocare un’eruzione di un vulcano, per vedere distrutta un’intera città? E che succede se poi questo accade, ci si mostra costernati e si fanno ipocrite gare di solidarietà? Esiste una reale volontà di combattere il razzismo e le discriminazioni in tutte le sfaccettature? Se chi legifera resta inerme, il calcio, per quanto è in suo potere, si faccia almeno promotore di iniziative educative per i più giovani e non di sanzioni che lasciano il tempo che trovano, come ad esempio la chiusura di settori dello stadio o il divieto di indossare la maglia con il numero 88. Chi assume comportamenti discriminatori oggi tra gli adulti è da considerarsi ormai perso, perché è rinomatamente complesso far cambiare idea agli asini, mentre se si vuole salvare la nostra società dobbiamo investire sull’educazione dei più piccoli, nella speranza che almeno gli oratori tornino ad essere centri di formazione, anche e soprattutto, spirituale.